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venerdì 15 marzo 2013

Il Lato Positivo – Silver Linings Playbook

Se c’è qualcosa in cui “Il lato positivo” eccelle, probabilmente è l’empatia. L’esperienza dello spettatore infatti, segue quasi spasmodicamente quella del protagonista, senza risparmiare nessuna delle sfumature peggiori.

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La prima parte del film è, per l’appunto, assolutamente fastidiosa, pesante e snervante, piena di grida, ossessioni e di quella sensazione di oppressione che i personaggi descrivono, inesorabilmente riversata sul povero spettatore, probabilmente impreparato a tanta grazia di influssi negativi. Si va avanti così ad esplorare la malattia mentale del protagonista Pat, che a dirla tutta è ben più normale della media dei suoi amici/parenti, per lo più impegnati a rendergli la vita ancora più impossibile e rimandarlo in manicomio.

Buona parte degli spettatori vorranno lasciare la sala alla fine del primo tempo (in molti lo hanno fatto) ma, tutto sommato, la perseveranza a volte paga, e dopo questo abisso di tristezza ed alienazione, il film cambia rapidamente registro, consentendo anche agli spettatori di “guarire” piano piano dai veleni in precedenza somministrati a iosa.

Certo, si sta sempre in attesa del prossimo insopportabile litigio condito da musica snervante, ma a parte ciò, il film procede in un moto liberatorio, che se non lo eleva a grande opera, per lo meno consente ai coraggiosi rimasti in sala di tornare serenamente a casa ed accantonare le idee suicide fiorite a fine primo tempo.

Nota di merito per entrambi gli attori, con Bradley Cooper decisamente credibile in una parte non facile e Jennifer Lawrence (oscar meritato) che regge la scena e con la sua presenza rende il film digeribile anche senza affogare in un bignè (o magari un paio di vodka…).

giovedì 7 febbraio 2013

Il viaggio conta più della meta. O no?

Capita spesso di sentir dire “il viaggio conta più della meta!”, ed in genere a proferire questa massima è gente che di meta non ne ha mai raggiunta una.

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Certo è una tipica frase ad effetto mutuata dall’epoca di Kerouac e dei trip “on the road”, ma ancora oggi nasconde, se non un fondo di verità, un importante spunto di riflessione.

Nessun viaggio ha senso senza una meta, ma non si può considerare una meta solo come un punto, senza dare il giusto peso al percorso seguito per raggiungerla. Ad esempio, se il vostro obiettivo è quello di andare ad una scicchissima festa VIP avete due possibilità: farvi invitare o imbucarvi. Lo scopo sarà raggiunto in ogni caso.

Possiamo però ritenere le due alternative esattamente coincidenti?

Andando oltre, se volessimo fare un bagno nella piscina di Hugh Hefner, potremmo andarci da ospiti o entrare di nascosto in casa sua. In entrambi i casi staremo a mollo nella mitica Playboy Mansion.
Come ospiti, però, saremo probabilmente intrattenuti da alcune delle sue numerose amiche, come novelli Arsène Lupin rischieremo invece un paio di notti in carcere.

In alcuni casi l’obiettivo stesso cambia in relazione alla via seguita per raggiungerlo, è il percorso a definire ciò che otteniamo.

Il percorso ci forma, ci plasma, ci rende pronti a sostenere le conseguenze del nostro obiettivo, ma allo stesso tempo lavora sull’obiettivo definendone i contorni e le sfumature, a volte mutandolo radicalmente.

In base al nostro comportamento potremo trasformare una storia di sesso in una relazione importante e viceversa; un rapporto di lavoro in un’amicizia, una birra in una birra gratis.

In definitiva è ovviamente falso che il percorso conti più della meta, ma parallelamente esso ne è parte fondamentale, assolutamente imprescindibile.

What you do is what you get.

venerdì 25 gennaio 2013

Cloud Atlas – L’atlante delle nuvole

Sarò sincero, su Cloud Atlas partivo un po’ prevenuto, vuoi per le critiche mediamente negative, vuoi per la troppa presupposta sensazionalità che di regola prefigura una cocente delusione. In pratica mi aspettavo di vedere un Parnassus o un Matrix fuori tempo massimo con in più la terribile pretesa di inchiodare lo spettatore per quasi tre ore. Mi sbagliavo.

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Cloud Atlas mantiene molti dei difetti prevedibili per opere del genere, ma ha spessore. Ha spessore nel montaggio, dapprima un po’ confusionario ma che via via si fa più pregnante e sensato, dando corpo alle sottili connessioni tra le varie storie.

Il film infatti consta di sei diverse storie ambientate in epoche diverse (1849, 1936, 1973, 2012, 2144 ed un futuro post apocalittico) ed ha la pretesa (riuscita) di portarle avanti tutte insieme, facendo coincidere nel montaggio i momenti simili o lasciando che l’una porti avanti l’altra. Già questo risultato sarebbe meritorio, anche con i limiti di alcune connessioni un po’ forzate e che richiedono attenzione ai particolari.

L’ulteriore passo avanti (a mio avviso) il film lo compie in quello che mi era stato anticipato come un suo grande difetto: la diversità di stili.

Alla regia abbiamo i fratelli Wachowski e Tom Tykwer, che si sono divisi il lavoro girando in maniera quasi indipendente le proprie storie: i Wachowski si prendono cura delle due ambientate nel futuro e di quella ottocentesca, mentre a Tykwer toccano le tre di mezzo. Il risultato è un evidente cambio di stile ad ogni passaggio di storia, che alleggerisce molto il film e rende le quasi tre ore decisamente scorrevoli.

Se le storie dei Wachowski si rifanno alla loro cinematografia (soprattutto quella del 2144, molto “matrixiana”), Tykwer si inserisce con retrogusti ogni volta differenti, dal melodrammatico episodio del 1936, al thriller politico anni 70, fino al grottesco del 2012 (forse il più riuscito).

Questo continuo stratificarsi di stili e storie costruisce un film corale retto da attori eccellenti (ma quanto è figo Hugh Grant capo dei barbari?), che recitano in tutte le epoche ruoli diversi, aiutati dal trucco spesso magistrale con qualche piccola caduta su personaggi secondari.

In definitiva, Cloud Atlas non lascia quella sensazione di aver assistito ad un horror/fantasy/spirituale mal riuscito che tanto temevo, e riesce anzi a non incupirsi più di tanto, aiutato dalla fotografia aperta e luminosa dell’ultimo episodio in linea temporale, che racchiude la summa dell’intera trama.

E pazienza se non si capisce la necessità di un clone-profeta, o se non si conosce il motivo dell’apocalittica fine del mondo, o se una fortuita coincidenza impedisce a due persone di vedersi ad un metro e mezzo di distanza. Pazienza anche se il leit motiv musicale “Sestetto Atlante delle Nuvole” non è poi nulla di trascendentale e (forse di conseguenza) viene un po’ tralasciato nello sviluppo delle connessioni, risultando poi quasi una inutile forzatura.

L’atlante delle nuvole è un film da vedere, a patto di non lasciarsi distrarre dal divertente gioco di riconoscere di volta in volta l’attore sotto il trucco, con il rischio di perdere le necessarie allusioni e collusioni.

Al limite se non riuscite a sottrarvi al compito di riconoscere Halle Berry anche sotto le spoglie più improbabili avete sempre un’alternativa: vederlo due volte.